A dieci anni dalla scomparsa del Maestro del Sangiovese, nessuno meglio di Carlo Macchi, poteva tracciarne un ricordo appassionante e commovente.
Giulio Gambelli per il sangiovese rappresenta ciò che Raffaello, Michelangelo, Giotto, Simone Martini o Leonardo, sono per la pittura e la scultura.
Ciò che Italo Calvino, Hernest Hemingway, Gabriel Garcia Maquez, Umberto Eco, per la letteratura, o Montale, Neruda, Ungaretti, rappresentano per la poesia.
Figlio di una sensibilità profonda che ai grandi fotografi o cineasti, permette di scandagliare nella natura o nell’animo umano e riprodurlo su carta o su pellicola, nelle vicissitudini intime del verbo essere.
Il dono di un palato infinito come un sabato del villaggio di Leopardi, da cui si percepiscono sentori, umori, volontà, stati d’animo e corollari di bestemmie contro le intemperie del cielo e della terra, che si uniscono e accompagnano chi passa le giornate fra le vigne e fra le botti.
Un’alzata di spalle, un occhiolino, una boccaccia, quelle minuscole recensioni particolareggiate su cosa era stato fatto, su cosa si sarebbe andato a fare, o una fiammata con gli occhi per chi si presentava a un appuntamento in ritardo.
“E’ sangiovese, ma l’uva era grandinata” l’impercettibile sorso di vino portato alla bocca.
Maestro di garbo, Maestro di sartoria riuscendo a cucire insieme vini superbi a dispetto delle avversità, Maestro dell’umiltà che in pochi hanno, e che, nel mondo del vino, (e non solo) è quasi andata persa.