Quando nasce un nuovo vino è sempre un’emozione.
Guardi le bottiglie nude e pensi a come sarà l’etichetta, ti arrovelli sul nome, che vorresti unico, inconfondibile, espressivo, vorresti che quel nome appartenesse al vino che rappresenta e che avesse un significato non solo per te, che ci hai pensato per giorni, ma anche per chi sceglierà di berlo, per chi dedicherà del tempo a capirlo, ad apprezzarne le sfumature, ad aspettarlo mentre si adagia nel calice, ad accoglierlo in un momento particolare della sua giornata.
Quando, la scorsa vendemmia, ho raccolto le prime uve di zibibbo, la produzione era talmente limitata da rendere impossibile qualunque lavorazione meccanica. Allora ho fatto tutto a mano: dalla diraspatura alle follature, alla pigiatura (utilizzando uno scolapasta), i batonnages, i travasi. Ho deciso poi di non chiarificare né di filtrare, e di imbottigliare per caduta, direttamente dalla vasca.
Un lavoro interamente artigianale, che per sua natura è lento, paziente, accurato.
Quando si è trattato di decidere il nome, è stato inevitabile: “A mano”. E allora ho pensato che anche le etichette dovessero essere così, semplici e scritte a mano, una per una.
Pochissime bottiglie, ovviamente, in cui la componente umana è altrettanto importante di quella naturale: uva e mani.
In un mondo in cui le macchine e l’omologazione sostituiscono sempre più l’uomo e la sua creatività, le mani sono, forse, la cosa alla quale dobbiamo ritornare.
Lo trovate su #vgm, se volete…