La difficoltà più grande risiede nel fare bene le cose semplici e portarle sulla tavola quando è l’ora.
Generazioni di persone si sono alimentate mettendo insieme quanto l’orto, il campo, il bosco, il pollaio, l’oliveta, la stalla e qualche filare di viti potevano offrire alla signora che doveva mettere insieme la benzina per il motore dei propri familiari.
Nascono da quello che c’era la bontà di cose fatte con arte, ma anche con la fantasia come la farinata con i bozzoli di pane secco fritti in poco olio, la minestra di patata o di tre ceci passati o le patate a buglione con il seme di finocchio, fino a scivolare nella regina dell’inverno toscano che è la ribollita.
Il bello di tutta una serie di piatti semplici e per questo difficili è che in ogni borgo ogni famiglia ne ha una propria versione ereditata dal mettere insieme quello che c’era e dalle esperienze e da qualche tocco personale nelle generazioni si alternavano.
Poi è arrivato chi ha capito il senso e la bellezza di questa ricchezza e l’ha scritta, messa su carta, divulgata e fatta conoscere, si tratta di personaggi del calibro di Mario Soldati, Luigi Veronelli, Giovanni Righi Parenti, Aldone Fabrizi per la cucina romana e pochi altri, non citando un certo signore di Forlimpopoli.
Il tempo ha decomposto la memoria, l’industria ha decomposto il gusto e sono nati opinionisti che spiegano e scrivono il peso degli ingredienti della ribollita con qualche chef che la fa con i gamberoni affogati nel cavolo nero mentre la spiega su qualsiasi canale televisivo o ne scrive o ne fa seminari o fa bere tè verde havaiano con il rigatino arrotolato o gente che fa la fila giorni per andare in un posto come Cornaredo per mangiare una cipolla caramellata invece che cuocerla lentamente sotto alla cenere calda e condirla con sale,pepe,olio bono e un filo d’aceto.
Niente è più difficile delle cose semplici, ma queste non si possono spiegare…. vanno solo sapute fare.
Andrea Pagliantini
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e noi le facciamo e ce le godiamo (ho fatto l’ altro giorno una pappa con i pomodori imbottigliati da me quest’ estate, della focaccia che non volevo buttare -ho la pasta madre che cresce, cresce e la focaccia a volte viene splendida, a volte meno -, il basikico fesco, l’ olio buono sopra. Niente, i maschi piccoli hanno rofiutato, maschio alfa ne ha mangiato un paittone sostenendo che era ottima, ma solo per dare l’ esempio e in inglese mi ha chiesto di non rimettergliela, pensando gli paicesse sul serio, e insomma, peggio per loro, io ci ho pranzato il giorno dopo. E prima o poi me la rifaccio).
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Ci vuole una certa abilità a semplificare senza perdere niente di essenziale
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“Niente è più diffcile delle cose semplici, ma queste non si possono spiegare…. vanno solo sapute fare.”. Il genio in maniera geniale, sei un grande!
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Sono talmente d’accordo con te su tutto, ma specie su Cornaredo, che per divertirmi un po’ devo insinuare a forza una polemicuccia.
Io non la chiamerei ribollita, perché la vulgata che è stata messa in bocca ai cuochi prezzemolati che invadono l’etere (o di cui si sono appropriati), usa ed abusa proprio di questo termine.
Niente, non gli voglio dare soddisfazione.
Per cui al giorno uno io la chiamo zuppa di pane, e la mangio con la cipolla passata nel sale.
Quel che avanza il giorno dopo, una volta scaldata, la chiamo ribollita.
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Ci sono cuochi che si parlano più addosso che il tempo stanno ai fornelli, sembrano gli enologi in giacca e cravatta che stanno ore a pontificare un bicchiere di vino.
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La proliferazione dei cuochi è figlia dell’incipiente disoccupazione.
L’ultima cosa da cui gli italiani gli ritrarranno è il cibo. E siccome i tempi sono quelli che sono (di domenica si va all’outlet!), la cucina casalinga va bene solo come citazione ristorantesca. E’ una sorta di moto consolatorio (della fine del consumo): si sente il bisogno di un appiglio fasullo, altrimenti che Italia è?!
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Io lo chef di Cornaredo me lo sono ritrovato, una mattina d’inverno, di fronte a far colazione a Firenze 😉 Meglio Forlimpopoli di Cornaredo! 😉
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mi associo!!!
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Stasera una fetta di pecorino con una pera, una fetta di pane con l’olio nuovo e mezzo bicchiere di vino…… cosi buoni che non c’è bisogno di questi scenziati con il camice bianco.
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Il segreto di Cornaredo? Essere poco costoso, ed ecco in una città come Milano, dove per mangiare una pizza e una birra oramai spendi almeno 15 euro, viene fuori il successo. Contando che usa ingredienti molto poveri, il guadagno per il posto viene comunque. C’è penuria di semplicità a Milano, quello è un posto che vuole sembrare semplice (cucina povera?) e invece è sofisticato. A Roma invece puoi andare ancora di fianco a San Pietro a mangiare nei piatti di carta i buoni carciofi alla romana, la pagliata o altri piatti della tradizione, con l’oste che riempie il piatto già stracolmo con grande generosità.
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Dalle mi parti si chiama minestra di pane, poi una volta ripassata in padella piglia il nome di ribollita ed è per non dare ragione a questi rafficati con il camice bianco che da ora è meglio riandare sul termine esatto di minestra di pane.
Bazzicando i luoghi in cui gironzolo io non credo mai incontrerò il grande cuoco di Cornaredo (posto tra l’altro endemico per la Mosca Olearia) ma i finti semplici che tentano di passare per modesti e alla mano sono e saranno la nuova infornata dei tempi di crisi.
Fanno corsi di addestramento e si adattano sempre al momento, sia quando c’è da leccare le mele a un politicante, sia quando c’è da tentare di fare i sempliciotti.
Niente di male e di nuovo….. è Italia.
Rimpiango una sera vicino Firenze dove il cameriere in canottiera chiese se ci piaceva il pesce perchè c’era solo quello e alla richiesta di un vino che non fosse un bianco friulano rispose :” C’è questo”.
Se c’è una cosa pallosa al mondo sono le ricette di cucina, se c’è una cosa più pallosa sono le ricette spiegate da questi usatori di piatti bianchi quadrati.
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Facciamo pure trentacinquanni fa. Milano, zona Porta Genova, c’era una rosticceria con pizza, gestita, come usava parecchio al tempo, da toscani. Entravi, ti sedevi dove c’era posto e come prima cosa ti chiedevano: “il vino bianco o rosso?”.
Milano era così. Accident’a chi l’ha cambiata.
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Solo e soltanto minestra di pane. Se avanza va scaldata a bagno maria senza rimesolare. In padella con quell’aspetto “masticata da un altro” la lascio volentieri ai fiorentini.
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@ Dario
Craxone cinghialone e il caro Silvio qualche traccia l’hanno lasciata nella città da bere.
E’ meglio ricordarsela come la città di Beppe Viola, di Facchetti e Rivera, Tino Scotti e tutti quei milanesi a cui piaceva il Chianti (vino) vecchia maniera…
@ Riccardo
ti sono nel cuore: modesti, a bagno maria e con l’olio bono e un poca di cipolla a crudo.
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Calmate gli spiriti talebaneschi, non esistono termini unici o esatti per chiamare le cose viste o sentite da piccini o dalle mamme o dalle nonne.
Basta(va) muoversi di pochi chilometri e gli orizzonti cambia(va)no: culinari e linguistici.
Quel che in un posto si chiama(va) minestra di pane, in un altro zuppa (e basta) o zuppa coi fagioli. Quel che da una parte si ribolliva dall’altra si rifaceva.E cosi’ via.
Giusta Silvana: la cucina casalinga vale solo come citazione ristorantesca. Moto consolatorio che risponde al bisogno di appiglio fasullo.
Siamo in tempi e soprattutto in luoghi di invenzione di tradizioni, di miti e leggende, e di etimologie. Ora come ora non c’e’ (quasi) piu’ il qua e l’altrove, siamo ormai (quasi) ovunque e (quasi) tutti nello stesso posto a sentire la stessa storia. Soffriamo quindi di una sorta di agorafobia culturale. Resta quel che resta dei personali ricordi, laddove anche quelli non siano gia’ preda dell’azione di reinvenzione che la nostra mente, birichina, non depone mai il vizio di praticare. E si rischia quindi di rispondere con moti di angustia claustrofobica.
Mai come ora mi pare che acquistino validità quasi universale le alate parole (che mi permetto di interpolare con un’aggiuntina che metto maiuscola) “chi vuole il SUO pane se l’affetti, chi vuole il SUO cristo se lo preghi”.
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Esemplare analisi di Filippo, che mi sento di sottoscrivere in ogni suo punto. Così come l’adattamento 2.0 del proverbiale memento, che sono convinto i nostri vecchi citavano in forma sintetica non per integralismo religioso.
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