Il camino in casa del prete di Vertine

Chiudendo gli occhi, un brivido gelido percorre a saetta la mente e percuote i sentimenti, scandagliando volti, rughe, crini pieni di avvio e tronchi di querciolo, pensando a inverni non tanto lontani, ma che gli spifferi di tramontana con le finestre dallo stucco screpolato e il vetro scempio gironzolavano per casa.
Pare di rivedere il vecchio Don Amos avvolto nel pastrano d’ordinanza e con lo scialle sulle spalle con il mento e le mani appoggiati al bastone e con ai piedi una “cecia” piena di brace.
Per andare a letto era preceduto dal suo omonimo “il prete” o “scardaletto” nelle ruvide, rigide, lenzuola di canapa, buone per tutte le stagione al netto del coltrone.
Pietre di un camino antico levigate dai culi succeduti in ogni tonaca d’epoca, nella casa più luminosa e decorata del paese, dove dalla primavera all’autunno si levavano le note di pianoforte, mentre d’inverno le mani infreddolite avevano altro che pensare alla musica.

Nel minuto giardino davanti casa le preziose cassette di api che lavoravano polline per il sostentamento e le infreddature del clero.
Musica e letture nel salottino, recite dei bambini che scendevano le scale come fosse una scenografia di teatro, sguardo sul cinquecentesco dipinto con le sette torri, borbottare dei tini in cantina, leggere stille nei caratelli del vinsanto.

D’inverno si era tutti pieni di geloni nelle mani, nei piedi, sulla punta delle orecchie e grandi strofinate con l’aglio; poi arrivarono le prime pomate e si odorava meno di salsa verde.

Le borse di gomma con l’acqua calda, grande istantaneo sollievo come le cipolle cotte nella brace.

E’ un piovere pensare a quei giorni, all’armonia, alle gioie dei grandi condivise nelle fatiche delle raccolte e delle battiture, alle fette di salame o le acciughe rinvolte nella carta gialla dalla Bruna in bottega, la dolcezza di una caramella d’orzo.
Non c’era tanto, ma quello che c’era, era per tutti: grande lezione di vita per chi si è formato e ama questi sassi ardentemente.

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