Dopo l’annessione dei territori ex borbonici e la proclamazione del Regno d’Italia mancavano ancora, per completare il processo di unificazione della penisola, il Veneto e Roma, l’uno saldamente tenuto dall’Austria, l’altra sorvegliata dalle baionette francesi, sotto il potere temporale di Pio IX.
Nell’agosto del 1862 Garibaldi aveva tentato di risolvere la delicata vertenza con un’azione simile a quella intrapresa in Sicilia nel 1860, ma stavolta gli mancò l’appoggio del governo, che, anzi, sotto la minaccia francese, dovette intervenire fermando l’eroe ed i suoi 2000 volontari sull’Aspromonte.
Il 15 settembre 1864 il governo Minghetti stipulò una convenzione (“convenzione di settembre”) in virtù della quale l’Italia si assumeva la difesa dello Stato pontificio, al posto della Francia che ritirava le sue truppe. Nondimeno di lì a tre anni, Garibaldi si risolse a ritentare l’impresa fallita nel ’62.
Il mattino del 22 settembre 1867 egli lasciò Sinalunga, da dove in poche ore avrebbe potuto raggiungere lo Stato pontificio, mettendo il Governo nella necessità di un pronto intervento. Fin dal mattino del 23 il prefetto di Perugia aveva predisposto quanto era necessario per impedire al Generale ogni possibilità di sconfinamento, da qualsiasi parte gli avesse cercato di raggiungere i territori del Papa, e nelle tarde ore di quello stesso giorno ne ordinava l’arresto.
Il delicato incarico fu affidato al tenente dei Carabinieri Pizzuti, comandante della Luogotenenza di Orvieto, che ebbe a sua disposizione una Compagnia di Fanteria e un treno speciale.
Ecco i particolari dell’arresto nella relazione spedita dal tenente Pizzuti, il 25 settembre, da Alessandria:
“Il 24 corrente verso le 2 antim. ricevetti, per mezzo della sotto prefettura d’Orvieto, l’ordine ministeriale di arrestare in Sinalunga Garibaldi ed i suoi. Col treno speciale messo a mia disposizione partii da Carnaiola alle 3,20 giungendo colà alle ore 4,30. Ivi arrivato presi le opportune precauzioni facendo caricare anche le armi ai centodieci uomini che avevo meco, cioè cinque carabinieri e centocinque di fanteria e mi introdussi in paese ove seppi che Garibaldi doveva partire verso Perugia alle ore 6. Mi affrettai quindi a mettere provvisoriamente in custodia quanti incontrai per impedire che si spargesse la voce dell’arrivo del treno e di truppa, ciò che avrebbe al certo compromesso l’operazione, bloccai quindi la casa del Generale e mi introdussi con due carabinieri sopra. Il padrone non voleva annunciarmi, io feci custodire lui e la servitù e feci informare della mia venuta il generale Garibaldi da un domestico. Fui introdotto nella sua stanza, lo trovai in letto, e gli partecipai l’ordine di accompagnarlo altrove, al che egli rispose essere a mia disposizione, mi chiese solo due o tre ore di tempo, io risposi non poter tanto accordare, mentre il paese era già in allarme, e che se tutto fosse avvisato ne sarebbero nati disturbi con la truppa, ciò che egli non potrebbe permettere. Garibaldi trovò giuste tali mie osservazioni e si mise a mia disposizione.
Requisita una vettura lo scortai alla ferrovia in mezzo agli evviva e grida di simpatia della popolazione pel Generale, mal frenata dalla presenza della truppa. Partii quindi per Firenze, ove ricevetti l’ordine di dirigermi ad Alessandria: eseguii, giungendovi alle ore 10,30. Nel viaggio non vi fu novità di sorta, eccetto i soliti gridi, che usando prudenza non ebbero altro seguito.
In Voghera Garibaldi disse essere alquanto indisposto e volersi fermare due ore, ebbi l’autorizzazione da S.E. il Ministro dell’Interno, ma mentre mi giungeva il dispaccio, il Generale esternava voler rimanere ivi l’intera notte. Io seppi che vi si trovava tal Pallavicini, suo braccio destro, e che la popolazione avrebbe potuto ammutinarsi e compromettere l’operazione, quindi, ad evitar l’impiego della forza, pregai il Generale di proseguire per Alessandria, dopo breve riposo, ove eravamo vicini; egli aderì.
Non mancai di comunicare gli ordini precisi che avevo dal ministero di usare tutti i riguardi e che il medesimo metteva a sua disposizione tutto che potesse desiderare.
Mentre da Sinalunga mi recavo allo scalo ferroviario, il maggiore Basso, garibaldino, e l’ingegnere Bartolini di Parma, chiesero di seguire il Genero che me ne pregò anche.
Non opponendosi le mie consegne, aderii ed ora tutti si trovano nella cittadella di Alessandria.
In Sinalunga non rinvenni altri ufficiali garibaldini.
Io cercai di conciliare tutta la possibile politezza col mio dovere, come mi era imposto. A Sinalunga fui costretto ad agire energicamente e fermare provvisoriamente quanti incontrai appunto per impedire che la popolazione fosse avvisata e che sarebbesi al certo ammutinata come dimostrava, ciò che poi mi avrebbe costretto usare la forza, la qualcosa il ministero non voleva che in ultimo e non presumibile caso.
Il Generale non ebbe a lagnarsi, anzi spesso ringraziava delle profferte che gli erano fatte da me e dal capitano di fanteria a mia disposizione“.
Andrea Pagliantini
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