
La fatica – quella vera – non è cosa da scivere sull’intonaco dei muri, ma è quel qualcosa che ti guarda in faccia, ti scruta dentro, ti mette a nudo i limiti e le possibilità di riuscire a migliorare in un percorso interno fatto di umiltà e modestia, con i piedi ben piantati in terra.
Quando le prime ombre della sera stanno per prendere il sopravvento su una lunga giornata di cose, è il momento di passare alla bagnatura dei fiori del Parco, delle piante condivise, dei fiori di tutte le tombe del cimitero, e nel mentre in cui si rimanda la stanghetta nella feritoria del cancello del campo santo, compare sovente una lucina fioca in sottofondo.
Di chi ha voluto mettersi alla prova, di chi, senza fretta e nel silenzio contemplativo di una campagna viva, curata nei dettagli e nelle avversità del clima, compie gli ultimi chilometri sui pedali di un percorso interiore che ti scava a fondo e non presenta scuse dell’essere soli con se stessi nel dosare le proprie energie e di condividere il piacere di aver compiuto un percorso interiore in beata solitudine contemplativa del verbo essere, in armonia.
Il piccolo fanalino nella quasi notte è sempre una nota piacevole: la pula accumulata sulla maglia, ben si sposa con l’erba fresca appena tagliata appiccicata sui calzoni.
Hanno molto in comune questo tipo di fatiche umili, di sostanza, senza voler apparire, basta spesso una sola occhiata, neanche tante parole, per trovare tanti punti in comune di un passo, di uno scricchiolare sul breccino bianco, di essere qui felici, aspettando l’arrivo di un altro giorno.