Marketing del vino di Marilena Barbera

Leggo da diverse settimane della inesorabile contrazione dei consumi di vino nei Paesi produttori, Italia in testa.

Leggo che le aziende vinicole, soprattutto le più grandi, non sanno più a che santo votarsi per frenare questa emorragia, e che si affidano a smanettoni rampanti per costruire una comunicazione che renda il vino italiano “moderno, giovane e sexy – e figo”. [cit].

Leggo di società di consulenza con 80 sedi in tutto il mondo che segnano sulla lavagna i bravi e gli asini della comunicazione social, e di uffici stampa che fanno di questa pseudo-notizia, opportunamente ritoccata, il claim pre-Vinitaly più noioso degli ultimi diciassettemila anni.

Leggo che esistono addirittura corsi universitari che insegnano come disegnare un’etichetta, e che le etichette, non il contenuto né i valori immateriali connessi al vino, sarebbero “lo strumento più importante in termini di marketing per le cantine” [cit.].

Vedo nei supermercati dell’eccellenza del wine and food italiano l’immagine che promana da questa ricerca del moderno a tutti i costi, del giovane a tutti i costi, del rampante a tutti i costi, anche a costo di cancellare d’amblais centinaia di anni di cultura, lavoro, dedizione, ricerca.

Poi leggo Hemingway, che dice: Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo.

E ancora una volta mi incazzo, perché d’accordo che viviamo in una società incivile, dove non conta più nemmeno il messaggio, ma esclusivamente la suggestione. Dove giocolieri, nani e ballerine che tirano i fili della politica smembrano il patrimonio culturale e agricolo italiano giocandoselo ai dadi nemmeno fosse il mantello di Cristo. Dove il vino, definito dagli organi ufficiali “esclusivamente la bevanda risultante dalla fermentazione alcolica totale o parziale dell’uva fresca, pigiata o meno, o del mosto d’uva” (e sottolineo “esclusivamente”), viene trattato peggio dei soft drinks a base di zuccheri e coloranti, e addizionato di ogni sorta di additivi per piegarlo al cosiddetto “gusto del consumatore”.

M’incazzo perché il vino è un patrimonio straordinario, forse uno dei più importanti ed evocativi che abbiamo, e nemmeno ce ne rendiamo conto.

Marilena Barbera

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0 Responses to Marketing del vino di Marilena Barbera

  1. Avatar di anna anna ha detto:

    Che noia che barba, che barba che noia il marketing del vino e il costruirvi sopra argomenti ed “eventi”….

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  2. Avatar di Roberto Giuliani Roberto Giuliani ha detto:

    Marilena hai ragione, ma separerei l’elemento “promozione” da quello squisitamente sociale che si sta abbattendo inesorabile su gran parte dell’umanità.
    E’ indubbio che essere cresciuti in un’epoca dove l’immagine conta molto più del contenuto fa sì che anche nel vino si tenti di tutto per venderlo, usando spesso penosi cliché e soprattutto ingannando la gente (come fa la pubblicità in genere).
    Dall’altra parte c’è davvero una crisi pazzesca, le nuove generazioni non possono più costruirsi una vita, un’indipendenza familiare, non possono fare progetti, ma solo rinunce.
    In questo contesto, dove anche quando hai poco puoi scegliere come usarlo, ecco che emerge il vero male di questa società: scegli credendo di farlo, gli oggetti (cellulari iphone e ipad in testa a tutti), pensando che questi DEVI averli, altrimenti non esisti, perdi il contatto con la realtà (virtuale), e al vino non ci pensi proprio, al massimo ne approfitti cercando di infilarti in un evento gratis, sfruttando il fatto che ti sei aperto un blog o semplicemente perché hai amici che ti fanno entrare.
    Diciamocelo: se guardiamo la quantità di gente che ancora oggi affolla gli eventi sul vino, sembrerebbe che la crisi non c’è. Invece basta andare in una qualsiasi enoteca e accorgersi che è quasi sempre vuota (a meno che non si trova in centro storico nelle grandi città colme di turisti), basta andare in un ristorante di fascia medio-bassa e accorgersi che, nella migliore delle ipotesi, chi beve lo fa al calice.
    Il vino oggi sopravvive quasi esclusivamente attraverso i mercati esteri, qui non c’è trippa per gatti, e infatti tante aziende hanno cominciato da tempo a ridurre drasticamente la loro presenza agli eventi, regge ancora il Vinitaly perché è l’unico che attira ancora buyers dall’estero.
    E i piccoli? Quelli che fanno meno di 10mila bottiglie? se il vino è buono e non costa molto riescono a venderlo ancora, magari pure online, ma sono tanti, tanti produttori e sempre meno i consumatori.
    Un momento dal quale si potrà uscire solo se, finalmente, si cambierà sistema sociale, e non sarà certo un Renzi a farlo, visto che parla di crescita e lavoro, lavoro e crescita, senza avere la minima idea di cosa sta dicendo.

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  3. Avatar di andrea Andrea Pagliantini ha detto:

    Ciao Roberto,
    dopo questo commento io non saprei che altro dire sull’argomento.
    Riporto solo un link che mi è stato mandato da un amico giornalista…… un master sul WEB DESIGN…per chi ha voglia di leggerlo e capirci qualcosa.

    http://www.polidesign.net/it/winedesign

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  4. Avatar di Marilena Marilena ha detto:

    Caro Roberto,
    sono d’accordo con te: sono sempre meno i consumatori – ma aggiungerei che quelli consapevoli crescono in percentuale rispetto alla massa indifferenziata.
    Da alcuni anni vedo crescere l’interesse per le differenze e le specificità dei vini, per i territori, per i metodi di produzione. Attraverso i social e il web sono testimone quotidiano di un crescente attaccamento al prodotto da parte di appassionati che girano per cantine e per mercati del vino, che comprano online, che chiedono, si informano, esprimono i loro giudizi sulle bottiglie che acquistano e che condividono con i loro amici.

    Dall’altro lato, ho la sensazione che le grandi cantine o, per meglio dire, l’industria vinicola fatichi non poco a tenere il passo: dopo due decenni di crescita esponenziale ciò che comprensibilmente era insostenibile (ovvero una ulteriore crescita esponenziale) si sta rapidamente materializzando.
    Ma, anziché vedere una reazione organica e pianificata da parte di fior fiore di consulenti, di professionisti, di interpreti delle tendenze, vedo un panico scomposto e allarmista, che addiviene a soluzioni quanto meno bizzarre.

    Ora: io non ho un MBA in marketing, né sono un grafico professionista. Ma a giudicare il messaggio di un’etichetta sono capace, così come credo di aver calpestato abbastanza marciapiedi per capire quale operatore commerciale ha un potenziale per attrarre clienti e quale no. E non è solo perché si trova in centro storico, ma perché offre un servizio e un’emozione, nonché una selezione adeguata e adeguati ricarichi.
    Ovvio che un ristorante di fascia medio-bassa venda pochissimo vino: in primo luogo perché spesso ricarica alle stelle molte delle bottiglie che compongono la sua carta, in seconda battuta perché non dispone di una valida selezione al bicchiere: ché se il consumatore vuole consumare al bicchiere (cosa che succede nei mercati esteri, e che spiega, almeno in parte, perché nei mercati esteri il vino si venda meglio che in Italia), non capisco perché gli si debba offrire un discutibile “vino della casa” o roba da supermarket e non un vino come si deve.

    Per quanto riguarda l’oggetto del post, e della mia incazzatura, mi rimane solo una cosa da dire: non è attaccandosi ad una utopistica quanto estrema modernizzazione della comunicazione e nemmeno svilendo il vino al rango di “bevanda figa” che si potranno vendere più bottiglie. Svilire il vino significa distruggerci tutti, e la grande industria (purtroppo) ha tutti i mezzi per riuscirci.

    M.

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  5. Avatar di Roberto Giuliani Roberto Giuliani ha detto:

    quello dello svilimento è un problema che tocca tutti i prodotti di qualità, a partire dal più martoriato (e falsificato) olio, purtroppo…

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  6. Avatar di Andrea Pagliantini Andrea Pagliantini ha detto:

    Con l’olio siamo dei campioni mondiali nel farci male da soli.
    L’unico prodotto che si può consumare dagli zero ai cento anni… affogato da grossi numeri, scarsissa qualità o vere e proprie truffe.
    Poi ad aiutare il lavoro e il paesaggio ci si mettono le ottusità di una legge che qualifica come rifiuto le potature dell’olivo e non si possono più bruciare a meno che non si voglia incorrere in una denuncia penale.
    Di questo passo anche l’armonia del paesaggio avrà i giorni contati e molti terreni saranno lasciati a se stessi.

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