Per fare dieci ravioli massicci ripieni di ricotta e spinaci più farina e uovo per la sfoglia, sono avanzati tre euro di spesa che in un qualunque ristorante di grido corrispondono ad almeno tre porzioni venduti a dieci euro conditi con burro e salvia.
Certo è che a casa nessuno ha quegli odiosi piatti quadrati bianchi luccicanti rigirati all’insù o quelle ruzzole di mezzo metro di diametro concave al centro in cui predisporre i ravioli come fosse una bara.
Non è il costo delle materie prime ad incidere, ma il lavaggio dei piatti che sono diventati dei giganti larghi come piazze.
Andrea Pagliantini
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… e incidono pure le ‘tangenti’ e i balzelli che gravano sul lavoro di chi lava (i pur grandi) piatti. Se pensi che a mille euro di stipendio che paghi a un lavoratore corrispondono più di duemila euro di costo per l’impresa; se aggiungi a questo costo tutti i ‘minuscoli’ costi tra inail, associazioni di categoria, e compagnia bella; se consideri che tutto ciò grava su ogni fase e ogni componente del lavoro, capisci che i costi della macchina “pubblica” (composta da eu+stato+regioni+province+comuni+excomunità montane), vedi che sul raviolo al ristorante grava l’universo mondo.
E non sto dicendo che i ristoratori siano specchiati e candidi – anche loro sono pessimi o ottimi, son uomini e donne come noi – ma dico che se non diminuisce il costo della macchina pubblica, o controllata dal pubblico, che costruisce controllate, partecipate, eccetera, in cui ficca gli amici (e soprattutto gli incompetenti!) e gli amici degli amici, son guai – per il raviolo e per tutti noi – . E non spero molto, perché troppo spesso al potere non c’è la fantasia (di sessantottina memoria), ma l’ignoranza e l’invidia.
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E’ vero quanto dice Silvana, ovvero che i balzelli e la burocrazia stanno affogando ogni attività e la politica ci inzuppa il pane continuando a piazzare nelle sedie incompetenti a cui dover pagare uno stipendio…………. quindi i ravioli saranno sempre più cari.
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“odiosi piatti quadrati” è la quadratura del cerchio: ci indica quanto locchi ci vogliano far diventare.
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La Silvana come sempre è la voce della saggezza.
Da quel semplice e umile raviolo c’è da calcolare l’incidenza delle seggiole ci gravitano intorno: dalla comunità europea fino al comune, l’usl, le associazioni di categoria…… anche l’umile raviolo si sente attonito da questo spreco di cartaccia.
Nei piatti quadrati rigirati all’insù mi rifiuto di mangiarci.
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e pensare che la toscana è uno dei territori più belli della nostra penisola.
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chi vuole trovare degli ottimi vini da abbinare a questi piatti consiglio di visitare http://www.lucewinetimeline.com/sito/it/7/279/static/in-terra-di-montalcino.htm
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io ci abbino il mio. non sara’ ottimo, ma appunto e’ il mio.
appurato che il problema di molti ravioloristorante (consistenza della sfoglia come di cartone) non dipende dal congelamento. ingredienti (uova in polvere)? cottura frettolosa? boh. chissenefrega, dopotutto.
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Io il raviolo me lo pappo solo nei luoghi ‘deputati’ (no!, non è la parolaccia politichese), e la sfoglia è un velo e ogni autore – perché il raviolo vero è d’autore! – ha un suo particolare dosaggio, anche per i ripieni più classici. Bene l’abbinamento con un vino ‘di casa’, e il tuo, caro Filippo vorrei assaggiarlo.
Per l’occasione, vi racconto il ripieno della mamma mia – non proprio italiana, ma che dalla cucina (per cui aveva una nonchalante passione) sortiva meraviglie -.
Raviolo di Natale; preparato ascoltando la sinfonia da La Cavalleria Rusticana, la sera della vigilia, alla radio, pensando al papà in navigazione nel Golfo del Messsico diretto, di solito, a Trinidad.
Io seduta a guardare e – su indicazione precisa – incaricata a usare la rotellina (di legno di bosso e avorio, di una qualche ava: ce l’ho sempre!) per riquadrare i ravioli (lato cm 4 scarsi).
Sfoglia tirata con macchina marca Imperia (la mamma aveva braccia deboli), piuttosto sottile, poche uova=pasta pallida.
Ripieno: ritagli dell’arrosto misto (no maiale) sgrassati; prosciutto in minima quantità, cervello rosolato al burro e salvia, un po’ di pollo o di cappone lesso, erbette lessate e super spremute, ciuffetto di spinaci idem; uno zic di pangrattato, macinata di pepe fresco, grattatina di noce moscata, uova fresche crude intere quante bastano a un ripieno morbido ma consistente (non molle), grattuggiata di grana padano.
I ravioli, abbastanza piccoli, devono essere ben gonfi e superben saldati; si buttano in acqua quando questa freme appena; non si scolano nello scolapasta bensì vi si appoggiano, dopo averli tirati su con schiumarola.
Un cucchiaio d’olio nell’acqua della bollitura aiuta a una cottura che li lasci intatti.
Si pappa(va)no di solito in bianco, nel burro appena sciolto nell’olio (non fritto), con foglia di salvia colta sul balcone milanese.
Oppure: in scodella ben scaldata (è inverno, fuori c’è la neve), riempita a metà di buon brodo sgrassato (se è Natale è di cappone) a cui si aggiunge un bicchiere di barbera.
A me ricordano un certo numero di Natali, Mascagni, la s/s Homeric su cui era imbarcato il papà, la fuliggine milanese e, naturalmente, la mia mamma severa e segretamente affettuosa.
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…me ne inviate un quintale?!
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che splendido racconto, Silvana.
Alla faccia di quei bischeri di chef master e di chi ci si confonde (più bischero ancora).
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Bella storia, Silvana. Mi ricorda altre mie, frutto di contaminazioni e invenzioni personali, sulla scorta di usi che erano di casa mia e di usi che avrei amato fossero, e che quindi ho inaugurato in modo che da ora e fin che duro siano. Ne ricorda e altre ne stimola, di nuove.
Il tortellino di natale, fatto la sera della vigilia. Servito il giorno dopo nel brodo di cappone. Con un cucchiaio di vinsanto di quello bono, a dare l’aroma. Ripreso da quel goccio finito nel ripieno.
I ravioli che faceva mi madre, piu’ simili a quelli che racconti te che a quelli che fa il su figliolo sia per la forma che per le dimensioni (anche per l’uso della rotellina, d’ottone quella che ricordo io; e quella, ahimè, io invece non riesco a ritrovarla più) anche se non per il ripieno (decisamente nordico il tuo. mi piace quel cervello rosolato nel burro e salvia…) .
E ribadisco il vino nella minestra: a me, mi ci prendono sempre per le mele. E invece ce ne sta così bene un cucchiaio: rosso nel minestrone invernale. Bianco profumato, meglio ancora vinsanto, nel brodo di pollo o di cappone. Rianima.
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Il vinsanto è – per me – una novità. Nell’edizione di Filippo è molto interessante e lo proverò. Non sono una grandissima amante di vinsanto: colpa dei senesi che, ogni volta, mi assicurano che non è più quello d’una volta. A me qualche volta pare interessante, ma non mi oriento bene (mentre nel sangiovese e nel nebbiolo – ma soprattutto nel sangiovese) mi oriento benissimo.
Di mio, nel brodo ci metto un bicchiere di acquavite, quando prende il bollore, ma serve per dare tono al lesso.
La prossima volta vi racconto i ravioli di zucca di mia suocera (mantovana); tutta un’altra storia e soprattutto si chiamano tortelli.
Anche su quelli, come sui precedenti materni, Monti e succedanei ci appiopperebbero volentieri una tassa, ho pronto il nome: “La Tassa sul Prelibato”.
Occhio,perché scherzando avevo scritto che avrebbero tassato gli orti ed è puntualmente accaduto con Imu; ora stiamo attenti agli sconosciuti che si presentano alla porta nei giorni di festa, annusando.
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Vai col tortello mantovano, Silvana: tutt’orecchie (e bocca).
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Eccoti accontentato, Cintolesi (ma siamo fuori tema?).
Qui la storia è un’altra. Protagonista è la Rezdora, ovvero la reggitrice della mensa contadina, nonché tenutrice di tutte le chiavi di casa, più governatrice che governante. Mia suocera – sposa a sedici anni, in quanto rapita da Antonio, quindicenne socialista – donna della bassa mantovana, nata in un paesaggio di canneti e argini – afa estiva e gelo invernale -(ora oasi naturalistiche). I suoi mitici tortelli cominciavano con un’immensa sfoglia (sfamava cinque figli, le nuore, e un nugolo di nipoti), tirata a mano, ricca di uova – più tuorli che albumi – stirata come una lieve gonna da primo ballo; la sfoglia pendeva dai quattro lati della tavola lievemente arricciata, fino a toccare quasi terra.
Il ripieno era composto da amaretti schiacciati con una bottiglia fino a esserne polverizzati, mostarda tradizionale di Mantova (fatta esclusivamente con mele) rimacinata, pepe e sale, parmigiano grattugiato e …la zucca.
La zucca è una scienza: non sono competente, ma l’autrice andava a scegliersela, la picchiettava, la ‘visitava’ per capire se era matura, non filacciosa, ma allo stesso tempo non acquosa. Tagliata in cubi grossolani veniva accomodata su un vassoio e infornata, affinché restasse integra, acquisisse consistenza, mantenendo intatto il sapore. Il forno era moderatamente caldo e la cottura molto sorvegliata, per non trovarsi con parti bruciate o troppo asciutte. Una volta cotta veniva schiacciata in una ciotola, salata e pepata, fino a ricavarne una poltiglia omogenea, malleabile, e non acquosa. Aggiunta degli amaretti polverizzati e poi uovo intero, quanto basta a creare un impasto bello sodo. A questa mescola viene aggiunta la mostarda e qui entrano in gioco i gusti personali. I tortelli sono di zucca e la mostarda va aggiunta con criteri diversi, che hanno a che fare con le tradizioni di ciascuna famiglia. Parmigiano o grana completano l’impasto. Che viene posto sulla sfoglia in modo meno calvinista di quello già raccontato e decisamente più abbondante. La saldatura del tortello è affidata alla pressione delle dita e la pasta svolazza intorno al tortello in modo apparentemente casuale, ma ha – come si suole dire – un suo perché (i volants trattengono il sugo di pomodoto)!
Questo infatti è un tortello decisamente dolce (la zucca di suo, gli amaretti, la mostarda) e quando si scola, viene sistemato a strati in una zuppierona ben calda; ogni strato viene coperto con una mestolata di salsa di pomodoro ben cotto e piuttosto acidulo per contrastare il dolce del ripieno e spolverato con il grana. Quando si arriva all’ultimo strato, lo si inumidisce con una mestolata (con buon senso) dell’acqua di cottura bollente.
Piatto selvaggio, che mia suocera ha preparato per tutta la sua vita, per la cena della vigilia di Natale, nelle campagne di cui mio suocero si è occupato; lavoro agricolo e di allevamento, muovendosi tra Maccarese, il delta del Po e la bassa mantovana e bresciana. La tradizione continuò a Milano, per vigilie che ho conosciuto, intorno a un desco che si portava dietro la memoria di mezza Italia, con bambini che ruzzavano e adulti che discutevano della stagione. Un desco di magro; dopo i ravioli il ‘bisatto’ o anguilla!. Vini aspri e poco curati, ma veraci. Gente di campagna e poca voglia di tirarsela.
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Che bellezza, viene voglia di provare a farseli semplicemente ascoltando il racconto.
Si direbbero molto simili, condimento a parte, ai tortelli cremaschi che credevo essere gli unici con l’amaretto. Ma in quelli non credo ci sia la mostarda. Cucina della Bassa che mi rimanda agli anni pavesi. Una bassa lombarda molto poco lombarda da un punto culinario, nel senso di molto contaminata di sapori oltrepadani (un oltrepo generalizzato).
Molto interessante il condimento acidulo. Indubbiamente ci vuole il “suo” vino.
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La geografia della “bassa” è trasversale, segue pressapoco il Po e gli affluenti, cominciando dal Ticino, a macchie che poi – esitando – si riuniscono tra loro fino a formare un continuum e poi allargarsi nelle valli del delta. Luoghi bassi e sanguigni, con le loro ‘capitali’, tra cui Ferrara, Ostiglia, Mantova, Piacenza sfiorando pure Parma; una geografia semiaffogata da esondazioni, pullulante di tipi in disarmo, musiche, salami, bondole, ciccioli e anguille e cacce in botte e vini aciduli.
Segnalo un luogo: Bosco ex parmigiano, più che da vedere, da sentire.
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..Che delizia ,i vostri racconti…un saluto
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Blog davvero interessante, peccato non sia ancora disponibile la versione mobile. Almeno io non l’ho trovata, infatti per leggere questo articolo sul mio telefono ci messo mezz’ora. Perlomento era interessante e ben scritto.
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